Soft Machine: Third

 

Dome alba 6“Il delirio della ragione…” (ranofornace)ranina picciina

 

 

Soft Machine-Facelift

soft 3 coloreQuello che andrò ad affrontare questa volta è uno dei punti più alti e indefinibili dell’era musicale progressiva e cioè l’opera terza dei Soft Machine “Third” del 1970. Un modesto contributo come si suol dire… una chiosa nostalgica e pretestuosa di antiche riflessioni su un punto cardine dell’evoluzione dell’arte musicale del secolo andato, ovvero delle sue scelte stilistiche a “rappresentare” la libertà creativa.

soft 2La storia dei Soft Machine è lunga e “macchinosa”. Partita nei primi anni ’60, trova la sua gestazione pionieristica più importante nel 1967 all’UFO Club di Londra insieme ai “compagni d’avventura” Pink Floyd. Diverse importanti defezioni come quella di Daevid Allen e Kevin Ayers avvenute alla fine del 1968 e la creazione di due album Importantissimi quali “One” (1968) e “Two” (1969), hanno segnato l’evoluzione e il cambio di rotta della loro intensa ricerca. I due album iniziali e le incisioni dei “Wild Flowers” mostrano tutti i presupposti ideologici delle varie personalità appartenute alla “soffice macchina “che vanno dalla psichedelia Barrett-floydiana al freakettismo dadaista di Zappa, al minimalismo di Terry Riley e al jazz di Miles Davis.

soft 4Se Soft Machine “One” e “Two” mostrano all’interno dell’espansione psichedelica, la diversità della natura canterburyana rispetto al nuovo panorama che si andava delineando alla fine del ’60, “Third” 1970, consacra il crocevia, il punto di raccordo fra la follia poetica dell’anima “patafisica” e “dadaista” Di Wyatt e Ayers con la rigidità strutturale del jazz europeo di Dean, Surman e Carr, dopodiché le strade presero separatamente il loro corso. La distensione temporale di “Third”, diluisce e incanala la poeticità surreale di Wyatt nelle quadrate disgressioni dell’avant-jazz di Dean e Hopper. Come se l’irrappresentabilità spaziale del genio Wyatt potesse prendere forma nell’irriducibilità concettuale di Dean attraverso un comune senso di severità che pervade l’improvvisazione strumentale. Ben poco rimane di quella prima strada, di quella ribellione. “Third” è un’opera drammatica, nel senso che mostra in modo unificato due anime inconciliabili; è per metà jazz a struttura jam e per metà surrealtà prog-psichedelica.

soft wyatt coloreLa formazione di “Third” epurata di due delle anime più forti, comprende: – Hugh Hopper (basso), Robert Wyatt (batteria, voce), Mike Ratledge (organo, piano), Elton Dean (sax alto, saxello). Poi ospiti, Rab Spall (violino), Lyn Dobson (flauto, sax sprano), Nick Evans (trombone), Jimmy Hastings (flauto, clarinetto). In pratica un ensemble formidabile in cui primeggia il genio Wyatt che al pari di un Robert Fripp o un Peter Hammill, ha segnato la musica popolare degli ultimi 50 anni e con “Third” troviamo la sua prima testimonianza “compiuta” in “Moon in June” ma andiamo con ordine.

Soft Machine-Moon in June

“Facelift” è il primo dei quattro brani del doppio lp ed è subito un salto nel vuoto. La tastiera fuori di senno di Ratledge, in preda al delirio, contiene  i semi free dell’avanguardia jazzistica americana che si impiantano nei muggiti fiatistici di Dean e Hastings; un brano in bilico fra la visione poetica wyattiana e razionalistica di Hopper che  con il “reverse” del tema fiatistico pervade di incubi la psiche dell’ascoltatore.

Il cerebralismo ortodosso del jazz-fusion di “Slightly All the Time”, pone la visuale stilistica su un diverbio insanabile all’interno del gruppo ma conserva ancora nei suoni delle tastiere di Ratledge e nel finale al saxello di Dean l’identità canterburyana.

soft wyatt 8 coloreIl Capolavoro “Moon in June” è la trasposizione dell’anima di Robert Wyatt; la sua dichiarazione poetica. Le linee melodiche incurvano lievemente i profili, mantenendo la loro identità tonale ma a sua volta sbalzata in uno spazio (armonico-sonoro) straniante e spiazzante, dosata da una sensibilità stupefacente dove troviamo il suo inconfondibile canto e timbro di voce. Ecco la genialità! “Moon in June” evidenzia l’incedere sentimentale e lo stile inidentificabile del suo autore, accondisceso magistralmente dall’apporto strumentale dei compagni ma ancora di più mostra un sistema con cui la creatività si divincola dagli schemi per seguire ragioni profonde nelle sue tortuose peripezie e giungere a noi sotto forma compiuta.

“Out-Bloody-Rageous” è l’ultimo brano. Balenamenti minimalisti alla Terry Reley dell’organo di Ratledge tributano alla modernità che dialoga col classicismo del tema jazz dal vago sentore “Valentyne”.

soft 7Diciamo solo che  il primo brano “Facelift”, può affiancarsi alla bellezza surreale di “Moon in June”, mentre gli altri due non sfigurano al confronto, tutt’altro… costituiscono un grandissimo esempio qualitativo delle potenzialità tecniche e musicali in cui si avverte ancora l’eredità psichica delle origini flowers-machiniane dei loro autori. Nel complesso l’album è un capolavoro senza se e senza ma, indubbiamente il punto più alto dei “Soft Machine”. Con “Fourth” dell’anno dopo il cambio di rotta è attuato. L’album spaccherà in modo definitivo le velleità “avant” del gruppo innestandolo definitivamente nell’esperienza jazz europea, portando così Robert Wyatt a separarsi e con la sua sfortunata vicenda a compiere il suo “volo più alto” nel 1974 con “Rock Bottom”, consegnando alla storia uno dei pochi capolavori musicali dell’umanità.

rano 2Valutaz. *****

Pierdomenico Scardovi

 

 

 

 


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