BARAK OBAMA: IL GIANCATTIVO

Se avesse cominciato come ha finito…

La democrazia americana in guerra con se stessa.

Il tentativo dell’ormai ex Presidente di condizionare le future decisioni del nuovo Presidente e, in prospettiva – perché non immaginarlo? – preparare il terreno per un impeachment, può sorprendere solo chi dell’America ha, o preferisce avere, una visione propagandistica e può sorprendere solo chi del Presidente Obama ha sempre preferito coltivare una immagine da santino.

Dunque, crolla il mito della democrazia americana? No, in realtà un robusto, spesso pericoloso, conflitto interno è parte sostanziale di una democrazia come quella americana, che è sempre stata un sistema attraversato da complotti, violenze e rese dei conti. Basterà qui ricordare i ben 4 presidenti uccisi, a partire da Abraham Lincoln nel 1865 e arrivando a John F. Kennedy a Dallas, in Texas, il 22 novembre 1963.

E anche ricordare il Maccartismo, le schedature dell’Fbi, le operazioni segrete contro i nemici Usa, le manovre intorno al Vietnam, l’impeachment di Nixon, lo scandalo Contras, le guerre di spie di epoca reaganiana (che fanno sembrare sciocchezze le espulsioni di Obama oggi) gli scandali sessuali di Clinton e le gigantesche false verità raccontate all’Onu da Bush.

Vitale e fredda, la democrazia americana non ha mai perso lo spirito animale che l’ha creata e sostenuta in quasi due secoli di incontrastata ascesa nel mondo. Una impeccabile foto di un perfetto sistema di pesi e contrappesi. Immagine popolare ma creazione, più che di verità, di una poderosa macchina produttrice di mitologia sul destino speciale dell’America.

Nulla di nuovo dunque alla Casa Bianca, salvo, forse, la sorpresa per i più di veder crescere i denti da lupo all’agnello Obama.

Minacciato, nel significato stesso della sua presidenza, ha tirato fuori le verità che pesavano evidentemente nel suo cuore e ha finalmente parlato di razzismo, di fine della speranza. All’Onu si è scagliato contro Israele, ha inviato, via Kerry, una denuncia dell’espansionismo israeliano in Cisgiordania, accusando direttamente Israele di essere una minaccia per la pace. Ha poi mobilitato la Cia, con il suo rapporto sulle ingerenze russe nelle elezioni Usa, e l’Fbi sulle operazioni di hackeraggio di Putin, fino alla espulsione di 35 supposte spie di Mosca.

In tutti questi passaggi, si legge lo scopo evidente di costruire un muro intorno a Trump, precipitando situazioni che di fatto il prossimo Presidente dovrà platealmente cancellare. Sono mosse intese anche a raccogliere e mobilitare lo scontento delle molte istituzioni che saranno fatte fuori dalla politica di Trump: si attendono pulizie a fondo dentro la Cia, dentro l’Fbi, la dismissione di progetti militari contro Putin, in Europa, Medio Oriente e Africa. Sono mosse di posizionamento di una guerra interna, il cui profilo è ben definito, che accompagnerà tutta la presidenza Trump.

Trump, da canto suo, si troverà a dover trattare con Putin in una posizione di inferiorità, dovendo, suo malgrado, accettare il ruolo predominante dello stesso, avendo anche fatto l’errore di definirlo intelligente. Il problema sarà tutto americano, l’America potrà accettare di essere un potenza di secondo piano? Molto difficile da credere. E qui si capiscono le ultime manovre di Obama, tutte tese a mettere in difficoltà Trump sul fronte interno, come potrà infatti rilanciare il “sogno americano”, con l’America ridotta a potenza di secondo livello? Potranno mai gli americani, genuflettersi allo strafottente e pericoloso Putin?

Cade così la versione del Presidente “buono” Obama. La novità che si segnala in questi giorni è proprio la caduta della convenzione rassicurante, alcuni la preferirebbero definire “buonista”, del potere Usa che è sembrata prevalente in questi ultimi otto anni di amministrazione democratica. Una ammissione tardiva, ma non meno feroce, perché si è ormai evidenziato lo scontro di potere che si è mosso sotto le acque apparentemente tranquille dell’amministrazione Obama. Otto anni finiti, non a caso, con la vittoria di Donald Trump, il cui successo è stato inversamente proporzionale allo sfaldamento politico vissuto dall’interno del mondo democratico perfetto degli Obama. Ah, se solo avesse cominciato prima a fare il cattivo!

Anche in questo senso l’elezione di Donald Trump ha messo allo scoperto una parte di verità sugli Stati Uniti, rompendo i luoghi comuni, le banalità, ed esponendo invece l’asprezza delle divisioni interne del Paese praticamente su ogni tema, da Israele, al petrolio, al mondo musulmano, al nazionalismo economico, all’immigrazione, alle alleanze di mercato, fino a, e non ultimo, il riscaldamento globale. Queste le divisioni di un vecchio mondo dominato appunto dall’America.

La divisione che attraversa ora l’America non è questione di politica o di ideologie, riguarda il giudizio su cosa è il mondo in cui viviamo, e riflette le opinioni e le divisioni che attraversano tutti i nostri paesi occidentali. Per questo la lotta fra democratici e repubblicani nei prossimi anni potrà imbastardirsi al suo interno a un livello che farà apparire ogni precedente scontro un gioco tra gentiluomini.

Ma c’è una differenza tra il conflitto interno agli Usa oggi e quelli del passato. L’America generalmente è entrata in una fase di lotta intestina ogni volta che il suo destino dominante è stato minacciato da una sconfitta. La crisi interna dei diritti civili, la crisi internazionale del Vietnam e poi dell’Iran, la crisi petrolifera degli anni settanta. Anche oggi vi si ritrova la stessa traccia di debolezza che mette in crisi il modello della società americana, dove le majors dettano legge su tutto e il Presidente di turno deve abbozzare.

La crisi odierna va vista in questo contesto. L’America di Trump si affaccia su un Mondo in cui il suo potere di controllo non è solo debole, è stato anche già ampiamente sostituito da altri centri di potere. E’ un mondo con altre grandi nazioni di fatto esenti dalla influenza Usa, come il blocco asiatico; un mondo in cui per Washington, l’Europa stessa non è più una sponda indiscutibile, e il Medioriente e l’Africa sono praticamente persi. Un contesto in cui gli Usa non sono più né il maggior mercato, né il maggior produttore e nemmeno il maggior contribuente alla spesa per aiuti allo sviluppo dei paesi terzi. La risposta ironica e condiscendente di Putin a Obama, è una prova agghiacciante di questa “povertà” americana. Putin, in egual misura, non ha considerato che questa mossa con molta probabilità gli si ritorcerà contro. Trump infatti dovrà ben spiegare agli americani perché si farà infinocchiare dalla Russia senza nemmeno reagire, dovendo accettare a piè sospinto tutti i dettami di Putin. In pratica agli occhi dell’America, Trump sarà solo un pupazzo, in un mondo in cui ognuno corre per sé.

L’America, in cui si riaccende la guerra politica interna, avrà dunque molte pochi appigli cui aggrapparsi con una certa sicurezza, mentre viceversa, noi alleati degli Americani abbiamo molte meno ragioni per poterci schierare con e per gli Stati Uniti. Un disvelamento non da poco, che ci porterà nei prossimi mesi ed anni, a ritarare il nostro giudizio e le nostre previsioni su cosa sono gli Usa per noi e su cosa davvero ci conviene fare di loro, e con loro.

Pensierino:

In mezzo a tutto questo ci siamo noi bellariesi, colpevoli di aver eletto il maestro di Trump, Enzo Ceccarelli, il quale, nel suo non pensiero, ha forgiato l’altrettanto non pensiero del caro Donald. Adesso tocca all’America rendersi conto che i buoni e i cattivi non vincono mai, ma gli incapaci sì!

Felice anno nuovo


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Il Direttore Giuseppe Bartolucci

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