KEYNES: ETICA E CINISMO DELL’ECONOMIA

Che poi la vita è davvero ironica. Tu la passi a studiare, diventi uno dei più rinomati scienziati del mondo, fondi addirittura una nuova scienza (macroeconomia) e una nuova scuola di pensiero (il marginalismo), per poi ritrovarti citato nel mondo social con una frase tranchant che magari, decontestualizzata, assume tutto un altro significato.

Stiamo parlando di John Maynard Keynes (5/6/1883 – 21/4/1946 Regno Unito) e di una delle sue battute più famose, anche se meno comprese: «Il lungo termine è una guida fallace per gli affari correnti: nel lungo termine siamo tutti morti.»

Ovviamente questa non è la sede appropriata, e oltretutto chi vi scrive non ha davvero le competenze e le capacità per eseguire discorsi aulici di economia.

La battuta di Keynes è sicuramente irreprensibile nella sua forma e indiscutibile nella sua sostanza, poiché è noto a tutti che l’unica cosa certa della vita è la morte.

In realtà questa frase pubblicata nel 1923 (The tract on monetary reform) rappresenta l’apice di una lunga contrapposizione di teorie economiche che portò Keynes a capo di una nuova corrente di pensiero: la scuola marginalista.

Proviamo a semplificare, con buona pace di tutti i miei bravissimi insegnanti che hanno, evidentemente invano, cercato di infondermi la teoria.

All’epoca, soprattutto negli Stati Uniti, imperversava l’idea che il mercato sarebbe andato in equilibrio da solo: nel lungo periodo tutti avremmo avuto un lavoro e un reddito, e sarebbero stati prodotti beni e servizi necessari e sufficienti a soddisfare la domanda. Traslando dall’economia alla politica, quindi, l’intervento dello Stato non solo non era richiesto, ma addirittura sarebbe stato controproducente per la ricerca di questo equilibrio “spontaneo”. Anche nei cicli di economie depresse o di crisi, era quindi necessario “lasciar fare” spontaneamente ai soggetti che operano all’interno del mercato (ai miei tempi si chiamavano attori, oggi è più chic Stakeholders). Le teorie economiche neoclassiche sono quindi state il “cavallo di battaglia” per liberali e liberisti di ogni epoca.

Keynes, che chiameremo Maynard per non confonderlo con il padre, anch’egli economista, fu una voce fuori dal coro, un pensiero fuori dal gregge. Personalmente mi piace pensare che nella sua formazione abbia avuto un ruolo non solo il padre economista, ma anche la madre, attivista per la difesa dei diritti. Il pensiero Keynesiano è di fatto molto cinico e purtroppo molto realista: il mondo perfetto non esiste, né in filosofia, né tanto meno in economia. La disoccupazione c’è e ci sarà sempre, così come la povertà, le malattie e le disuguaglianze. Non è vero che tutto andrà in equilibrio da solo, e se ci affidiamo a questa convinzione per fare le nostre scelte, «nel lungo periodo saremo tutti morti», sì; di fame e disoccupati (ecco cosa intendeva il nostro Maynard).

Allora per porre rimedio a questi squilibri “naturali”, lo Stato deve intervenire non solo per motivi etici e morali, ma anche come attore presente all’interno del mercato, soprattutto nei cicli depressivi e nelle crisi. Deve adoperarsi per sostenere la domanda e i consumi, e di conseguenza il lavoro e il nostro vilipeso Prodotto Interno Lordo.

Lo Stato quindi deve incentivare l’economia depressa avviando opere pubbliche che possano garantire un lavoro e un reddito ai cittadini, che quindi possano continuare a consumare e sostenere l’offerta delle aziende private.

Deve inoltre eseguire quelle opere che il privato da solo non riuscirebbe a sostenere e che sono usufruibili da tutti: acquedotti, strade, fogne, scuole, ospedali, etc…)

Per fare questo lo Stato utilizza le entrate che provengono da imposte e tasse.

Altra grande, triste verità: le tasse sono necessarie, ahimè.

Anche qui proviamo a traslare. Per il vivere civile e per la protezione di tutti, ognuno di noi ha rinunciato a una fetta della propria libertà e scelto di vivere in società organizzate da leggi e regolamenti che tutelano tutti (altrimenti sarebbe una giungla). Analogamente ognuno di noi rinuncia a una parte del proprio reddito per costruire e utilizzare strutture e servizi che da solo non potrebbe permettersi.

Questo è forse il motivo per cui la Tav si farà (anche perché, a mio avviso, abbiamo già ottenuto e incassato i fondi comunitari a disposizione).

Questo è anche il motivo per cui la flat tax non è opportuna: riduce le entrate fiscali per lo Stato, e soprattutto libera capacità di spesa per i ceti più abbienti, deprimendo la domanda per i redditi più bassi.

Peccato che i redditi più alti siano numericamente inferiori e che quindi la loro capacità di spesa non potrà mai compensare quella della stragrande maggioranza dei “meno abbienti”. Triste ma vero, caro il mio Maynard.

(si ringrazia www.treccani.it , dalla quale sono tratti l’immagine di copertina e i cenni biografici)


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Il Direttore Giuseppe Bartolucci

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