Henry Cow: Legend

 

OLYMPUS DIGITAL CAMERA“Calzare a pennello il futuro svuotando un mondo di nostalgie.”

ranofornace ranina picciina

 

 

Henry Cow-Nirvana for Mice

henry cow legend 2Trovo che la copertina del primo album degli Henry Cow sia un lavoro di “pittura”  informale perfetto, alla Antoni Tapies tanto per intenderci, divenuto un loro marchio di fabbrica, questo va a discapito invece di chi dice che è orripilante. No… il calzino di “Legend” a trama in fili di plastica colorata sagomato perimetralmente da un leggero strato di gesso, è splendido! Del resto, contiene una buona dose di compiaciuto e ironico anticonformismo, espresso all’interno con una decostruzione musicale che sa più dell’indeiscenza, che di una volontà innovativa vera e propria, per quel senso di matura formalizzazione. Un processo iniziato molto tempo prima dal free jazz di Dolphy e Coltrane, poi con lo “Zio Frank”  ha continuato lungo l’asse Soft Machine – Wyatt- Tippett – Matching Mole, più precisamente: “Out To Lunch!” – “Ascension” – “Absolutely Free —> Uncle Meat—> Grand Wazoo” – “Soft Machine Third” – “The End Of An Ear” – “Dedicated To You, But You Weren’t Listening / Centipede Septober Energy” – “Matching Mole same / Little Red Record”, con alti e bassi di adozione rock.

henry cow 1Gli “Henry Cow”, l’irriducibile gruppo di avant-prog-jazz-free-form, il più intransigente e ideologicamente estremista, della più sbalorditiva nidiata musicale sessanta/settantiana inglese, la cosiddetta ”Scena di Canterbury”, si formò nel 1968 in quel di Canterbury dal chitarrista e violinista Fred Frith. La loro prima pubblicazione avvenne solo nel 1973 con l’album “Legend”, praticamente rimasero sconosciuti fino alla loro partecipazione nel 1971 al Festival di Glastonbury e in seguito accompagnarono Mike Olfield al concerto di “Tubular Bells” alla Queen Elizabeth Hall. Line-up: Jeoff Leigh (sax, flauto, clarinetto, flauto dolce, voce), Tim Hodgkinson (organo, piano, sax alto, clarinetto, campanellini, voce), Fred Frith (chitarra, violino, viola, piano, voce), John Greaves (basso, piano, whistle, voce), Chris Cutler (batteria, piano, whistle, voce). Non so quanto abbia da spartire in fatto di rock con le altre compagini del firmamento progressivo, ma il circuito popolare comprendeva ogni sorta di proposta. Quando avviene che la musica si scrolla di dosso ogni pregiudiziale in fatto di ricerca, fruizione e destinazione del prodotto musicale, vuol dire prima di tutto che è fedele alla propria natura. Volge cioè gli occhi al suo interno per muovere le pieghe espressive di una “scuola territoriale” ed enunciare la propria visione alternativa lungi dalle aspettative popolari. Così è il presupposto di “Legend”, continuare l’imperterrita riconferma della propria identità culturale.

Henry Cow-Teenbeat

“Legend” è un album straordinariamente bello, saldamente ancorato all’avanguardia, ma con gli occhi volti al senso della melodia non propriamente ortodossa, pur sempre una “melodia romantica”. Spesso l’avanguardia raffredda i sentimentalismi post-moderni per svuotarli di accumuli retroattivi. Non è il caso di questo splendido lavoro, dalle sonorità pacate e dai riferimenti stilistici chiari (come detto sopra), che riprendono i fili della musicalità dotta.

henry cow 2 Apre “Nirvana for Nice” ed ossequia subito Frank Zappa. Un incedere orchestrale armonico piacevolissimo, senza particolari orientamenti della linea melodica, apre in perfetto stile “Grand Wazoo”. Dopodiché evolve come nei migliori brani jazz in free-form che presenta alcune genialate nel finale alla “Centipede”, il più anziano experimental-ensemble messo assieme da Keith Tippett nel 1971 con il capolavoro “Septober Energy”. “Amygdala”, è armonicamente aperta senza ricongiungimenti, ricorda la concezione wyattiana della concatenazione imprevedibile degli accordi che non permettono la chiusura della melodia, lasciandola spaziare perdutamente in un fraseggio a brevissime frazioni di zone folk, jazz, pop, prog da classica cameristica, ecc., aumentando così il senso d’impalpabilità. Narrazione dotta quindi. Il minimalismo citazionale di “Teenbeat Introduction” per Dolphy e Coltrane, apre al dialogo insinuante e lamentoso dei sax di Leigh e Hodgkinson su un’alba primordiale percussiva che va a concludere in apoteosi free come  in “Septober Energy”.

henry cow fred frithContinua in apertura di “Teenbeat” alla stessa maniera dei “Centipede” di Tippett, ma la narrazione musicale muta “pelle e colore del cielo” in eccentriche frazioni rock-jazz fiatistiche che non amano prendersi troppo sul serio fino giungere a reiterazioni tempistiche gentlegiantiane in pieno clima paradossale. Il bellissimo e insolito preambolo chitarristico di Fred Frith apre al dialogo operistico di “Extract From ‘With the Yellow Half-Moon and Blue Star”, per un addensamento fantasioso canterburyano a base di fiati. In “Teenbeat Reprise”, la chitarra sintetizzata di Frith fa capolino sulla base jazz-fusion in tre differenti  spoglie fino a imbracciare il violino in sospensione d’attesa. Attesa metafisica alla Matching Mole in “The Tenth Chaffinch”; su un tappeto tastieristico weberiano si posa il vociferare espressionista di stampo teutonico di tutti i componenti del gruppo, ripreso poi nella collaborazione con gli Slapp Happy di Dagmar Krausee e Peter Blegvad nel 1975 in “Desperate Straights”, ma ricorda concettualmente anche l’incedere del preambolo di “Septober Energy” compreso quell’apporto elettronico della chitarra di Frith. “Nine Funerals of the Citizen King”, è un brano vocale cameristico con frazioni minimali folk che ricorda sia la scienza patafisica delle soluzioni immaginarie di  Ayers e Wyatt che lo spirito di “First Utterance” dei Comus e guarda caso nel loro secondo album del 1974  “To Keep From Crying” comprendeva nel gruppo, Lindsay Cooper da “Unrest” degli Henry Cow che aveva appena sostituito Leigh; un brano  in bilico fra improvvisazione goliardica-decadente  e stato armonico-melodico sbilenco, unico esempio in questo disco di chiusura del fraseggio.

Henry Cow-Nine Funerals of the Citizen King

Henry cow nuova 1Termino riconoscendo che qui siamo ancora una volta di fronte ad un capolavoro, forse l’unico così limpidamente della loro ingegnosa discografia, l’unico veramente posizionabile a fianco delle altre perle del “genere territoriale” (“The End Of An Ear”, “Rockbottom”, “Joy Of A Toy”, “Shooting At The Moon”, Whatevershebringswesing”, “Soft Machine Third”, “Hatfield And The North”, “Flying Teapot”, “Angel’s Egg”, “Of Queues And Cures”, “First Utterance”, “In The Land Of Grey And Pink”). “Legend” arricchisce l’identità linguistica canterburyana di un tassello fondamentale nello spirito della piacevolezza, a cavallo fra elaborazione emozionale del passato ed equilibrio estetico puramente classicheggiante. Nel 1975 si unirono agli “Slapp Happy” per ragioni di sopravvivenza discografica, ma il gruppo continuò con una serie di lavori pregevolissimi fino al 1978, anno in cui avvenne lo scisma che provocò la nascita degli “Art Bears”. Frith e Cutler espressero “Hopes and Fears”, un album inghiottito da impreviste impennate rock e da adiacenze atonali dissonanti e cacofoniche da teatro brechtiano, appartenente più che altro alla cultura espressionista germanica della Krause, spegnendo così definitivamente in loro, ogni minima parvenza del sogno canterburyano.

rano 2valutaz. ***** Pierdomenico Scardovi


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