Musica Senza: Arthur

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Arthur

 

 

E nei suoi occhi, l’azzurro pervinca

Biondi i capelli, nastro di scuola

Giovane cuore portato all’inferno

Veliero di carta, scese* la Mosa.

Arthur!

Davanti alla casa pianse la dama

Ma nelle suole un volo nel vento

Colse una rosa e il suo profumo per strada

Da Charleville verso il deserto.

Arthur!

Coperti di sabbia i passi lasciati

Le grandi Ardenne lontane nel cuore

E l’alchimia trafitta dal verbo

Un taglio amaro dentro le labbra.

Arthur!

Nuvola in cielo tinto di nero

Mente che vola, un ebbro veleno

Nei caldi flutti cercò l’amore

Trovò la morte, nel cuore l’orrore.

Arthur!

Angelo, giglio reciso nel fiore

Piramide scritta, Arthur il suo nome

Libero astro, viaggiò nel tempo

Ed il suo addio dato d’esempio.

Arthur!

 

testo musicale di Pierdomenico “ranofornace” Scardovi 1997

 

nota – Questo mio testo è stato musicato, recitato e suonato da me nel 1997, in omaggio a colui che più di tutti ha “illuminato” gli angoli angusti del mio cuore, il poeta fanciullo Arthur Rimbaud.

il brano musicale medievaleggiante dal tono decadente e greve è stato voluto come sintesi umorale sulla sua travagliata vita e ricerca poetica sfociata definitivamente, in quel capolavoro assoluto senza tempo che è “Una Stagione all’Inferno” e per meglio ricalcare il senso di alcune sue poesie dai versi a scansione reiterata, mentre il testo costituito da 5 strofe da 5 versi ciascuno (comprendendo il suo nome), è operazione matematica, per  meglio accentuare la rigidezza, (tipica forma della poesia medioevale di cui Rimbaud fu un esimio estimatore come ad esempio in “Ballo degli Impiccati”, rifacimento della celebre poesia di Francois Villon “La Ballata degli Impiccati”), adottata in alcune sue poesie.

La recitazione nasconde un lapsus* sulla parola “scese” divenuta per ragioni misteriose, al momento della registrazione “scendette”, parola inesistente (sbagliata se volete) in cui si avverte da parte mia un strisciata del fonema –sc-, una sorta di prolungamento dovuto ad una mia indecisione, nonostante avessi avuto al momento sotto gli occhi la parola giusta. Questa esecuzione (un vero e proprio miracolo secondo i punti di vista) non l’ho mai voluta modificare per i motivi che andrò a spiegare. Vengo in mia difesa dicendo che moltissime parole dei miei testi sono state inventate al momento, veri e propri neologismi personali. In fondo il linguaggio nell’arco dei secoli ha subito continue modificazioni e innesti di vocaboli, grazie a immissioni arbitrarie o all’uso ripetuto e trasversale nelle società, accettazioni attraverso testi di illustri letterati come ad esempio nel “flusso di coscienza” in James Joyce o il “verso libero” in Ezra Pound ma anche dai nostri classici, da Dante fino al ‘900 e proposte recitative a “flusso libero” di rivoluzionari della performance vocalistica, quali Carmelo Bene o Dario Fo, nonché la “scrittura automatica” surrealista senza una giustificazione necessariamente dotta o controllata, ma frutto di geniali intuizioni. Ovviamente non tutto quello che è stato inventato, ha poi preso la via della convenzione e tantomeno le parole che mi invento per mio puro diletto. L’uso “strettamente personale” del linguaggio volto alle mie composizioni che non hanno pretese di nessun genere, invece è ciò che mi stimola veramente a scrivere, più di quanto ho da dire.

*Al momento di pronunciare la parola “scese”, ma già prima, da “Veliero di carta”, ho avuto un flashback  nella mia mente (la descrivo come una bolla di sapone che si è dischiusa nella durata di non più di un secondo) in cui mi sono visto bambino a 10 anni nella mia soffitta con un amichetto e la voce di mia madre che chiamandomi per nome, gridava testualmente “scendete!”, pronunciato da me in quell’istante con: scende(t)te. Quello che posso dire è che il verso della mia composizione “Veliero di carta, scese la Mosa”, nasce da una mia immagine fantasiosa di Arthur Rimbaud bambino, più o meno alla mia stessa età, chinato in riva al fiume La Moselle, che passa realmente, proprio davanti alla sua seconda casa a Charleville Mezieres intento a giocare, lasciando scorrere giù per i flutti una barchetta di carta.  Un’immagine elaborata dalla mia fantasia, tale da farmi illudere che egli abbia composto in seguito la poesia “Il Battello ebbro”, sul ricordo di questa mia presunta”veggenza”.

“Se desidero un’acqua d’Europa, è la pozzanghera

nera e fredda in cui, verso il crepuscolo aulente,

un bimbo accoccolato, pieno di tristezza, vara

una barchetta fragile come una farfalla di maggio.”

da: “Il Battello Ebbro” di Arthur Rimbaud

Ora, io non so se questo sia effettivamente avvenuto, ma la ragione di tutta questa catena sintagmatica di differente natura fra: testoscrittosucarta-vocemnemonica-voceespressa, al momento mi è totalmente sconosciuta e in quale rapporto si pone al mio flashback e qui mi fermo, non vorrei fare del pan-psicologismo azzardato nei miei confronti. Ma ecco  a voi, il fascino e il mistero dell’arte, che si pone come  testo e chiave di lettura pluridimensionale fino ai confini del “buio o della luce” più totale.

Per finire: in questo caso, il testo scritto e l’esecuzione parlata si legano necessariamente in una complicità semantica atta a svincolarsi dal referente e tradirlo,  per un “viaggio di conoscenza” per l’autore, mai immaginato nelle sue premesse.

Per cui: “E se queste righe dovessero cadere sotto i suoi occhi, ben sappia Arthur Rimbaud che noi non giudichiamo i moventi degli uomini, e sia sicuro della nostra completa approvazione (della nostra nera tristezza, anche) di fronte al suo abbandono della poesia: perché, come non dubitiamo, questo abbandono sia per lui logico, onesto e necessario”

Paul Verlaine

Pierdomenico Scardovi (voce, chitarra acustica, tastiere, percussioni)

rano 2Pierdomenico Scardovi-Arthur-1997- (file originale)


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