ADOLESCENZA

Terzo breve racconto

Quella primavera del ’64 non era esplosa solo nell’aria, ma anche dentro Caterina, 13 anni compiuti all’inizio del freddo inverno ormai passato e trascorso a battere i denti nella sua casa, in cui il caldo era confinato alla sola cucina. Ma durante quel freddo inverno qualcosa di importante era avvenuto. Come si diceva: era “diventata signorina”…

La cosa l’aveva disturbata molto e anche un po’ spaventata, ma quello che la turbava era che non si sentiva più lei. Nuovi turbamenti la stavano tormentando. Non era affatto felice, quel corpo che si trasformava anche troppo velocemente la metteva a disagio. Non le piaceva, non si piaceva. E poi perché quell’attenzione a quel corpo che non aveva mai considerato?

Si guardava allo specchio: «Sono brutta», pensava. Guardava quelle riviste dove splendide donne posavano, poi si guardava e si sentiva ancora più brutta. Infelice, ecco cos’era, infelice.

«Voglio morire!» Si diceva, e a volte anche ad alta voce lo diceva. E poi perché quelle sensazioni quando vedeva un bel ragazzo? Perché quei brividi e quegli stordimenti quando ce l’aveva vicino? Per non parlare se poi la toccava con una mano sulla spalla o se il suo ginocchio sfiorava quello di un ragazzo quando erano seduti vicini… Ma lei era brutta. Ma poi che le importava dei ragazzi? Ma quando mai le erano interessati?… Ora, accidenti! Ora le interessavano, inutile negarselo!

A scuola quell’inverno una ripetente aveva raccontato che aveva baciato un ragazzo… Le altre tutte attorno curiose a chiedere com’era stato e: «Ma non hai paura di essere rimasta incinta?» Chiedevano…. «Ma che ne sapete voi…» diceva quella… Ma lei no, lei stava discosta. E poi quella aveva già le calze fini… Veramente avrebbe voluto provare anche lei a metterle, ma i calzettoni erano ancora d’ordinanza. Sarebbe stata la mamma a decidere quando.

Antonella l’aveva invitata alla festa del suo quattordicesimo compleanno e la mamma aveva dato il permesso litigando col padre, improvvisamente, chissà perché, diventato gelosissimo di quella figlia.

La radio col giradischi per la musica, un po’ di bottiglie di San Pellegrino e la torta con le 14 candeline, e anche la cioccolata calda. E mentre qualcuno metteva “Alla mia età”, cantata da Rita Pavone e lei stava lì, un po’ a disagio, un ragazzo più grande le si era avvicinato sorridente. Era grande, sì, avrà avuto almeno 16 anni. Lo aveva già visto in giro ed era uno di quelli che le facevano battere più forte il cuore. «Ciao, come ti chiami?»- «Caterina» – «Io mi chiamo Valerio, balliamo?» Avrebbe voluto scappare. Dire no? Si vergonava. Dire sì? E poi?…

Ma lui l’aveva già presa per mano e portata al centro della stanza a ballare tra gli altri. La musica? E chi la sentiva la musica? Chi poteva ascoltare la musica col cuore a mille, le gambe molli e quel tremore dentro e, forse, anche fuori? La notte non riuscì a chiudere occhio, gira e rigira ad attorcigliare le lenzuola. La mattina era uno straccio.

Allo specchio si vide ancora più brutta: troppo bassa, troppo magra, il seno troppo piccolo, il naso troppo grosso e così, avanti a pettinarsi con i capelli davanti al viso per nascondersi.

Al pomeriggio del giorno dopo, era seduta sul muretto della fontana al centro della piazza, quando vide Valerio passare con la bici. La vide anche lui e si fermò. «Ciao Caterina…», lei sussultò, lui si ricordava come si chiamava… «Ciao Valerio» disse lei rimanendo a testa bassa. Degli amici lo chiamarono e lui: «Arrivo!… Ciao, devo andare»

E non ebbe più modo di vederlo, chissà dov’era finito? E lei continuò a pensare a lui, ma non chiese mai nulla e a nessuno permise di conquistare completamente il suo cuore.

Solo quindici anni dopo, in visita a Firenze, nella chiesa di Santa Maria Novella, un giovane prete le si avvicinò sorridendo…

Don Valerio si ricordava ancora di lei…

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