Introduzione al romanzo “Un capoccione al comando”
Da tempo aleggiavano sintomi di ribellione. Il controllo era diventato asfissiante, addirittura era stato messo in piedi un servizio spie che controllava chi salutava chi.
Il Grande Capo se ne vantava, era sicuro di avere tutto sotto controllo. La guerra con quel maledetto giornalino andava malissimo. Archibugi, mortai e cannonate colpivano senza pietà da ogni lato. Era urgentissimo varare misure drastiche.
Gli alleati però nicchiavano, avevano capito che la guerra era già perduta. Il nuovo ordine era ormai alle porte.
Il Grande Capo si mostrava oltremodo sicuro, ma la mascella contratta ne tradiva la preoccupazione, insieme al ciuffettino ribelle sulla fronte. Questo lo innervosiva parecchio. Inoltre le avvenenti signore che lo circondavano, un po’ gallinelle, ma funzionali alla bisogna, lo distraevano dalle sue inusitate capacità. Pur saldo nel suo smodato ottimismo, avvertiva qualcosa di strano nell’aria.
La cosa lo preoccupava e dava vita a quel dolore ulceroso nelle sue viscere. Aveva iniziato anche a balbettare. Doveva ritrovare se stesso, ribadire il suo assoluto potere. Ma come? Dopo lunga meditazione mise a punto la strategia: avrebbe usato le proposte dei suoi alleati in rotta con lui, a proprio vantaggio.
Era più che sicuro che nel “Gran Consiglio” forte del suo carisma e del clima di terrore instaurato, avrebbe scardinato l’opposizione interna, continuando cosi a regnare incontrastato. Decise la data: il 25 Luglio.
Quella data la sapeva essere storica, ma non ricordava il perché. Amava la storia anche se non la conosceva. Un po’ affranto e molto stizzito per l’andazzo generale delle cose, confidava in quella serata per ricompattare tutti intorno alla sua figura. Già per il 22 Luglio aveva in agenda la presentazione del più grande investimento di riqualificazione urbana mai fatto in città.
Sapeva benissimo che sarebbe stata una preparazione per l’incontro del “Gran Consiglio”. Il suo intervento fiume, insieme alla sua riconosciuta capacità oratoria, più un bel po’ di retorica di regime, gli avrebbero permesso ancora una volta di dominare la scena e incantare le folle, mentre i suoi avversari avrebbero ancora masticato amaro, dovendo pure elogiarlo.
I tempi stringevano, perché la guerra si era messa davvero male. In realtà era alla ricerca di un posto prestigioso ma meno pericoloso: la Presidenza della Banca “Emilia Ovest”. Aveva congegnato la sua Exit. Tornare ad essere il Grande Capo assoluto, dalle cui labbra tutti pendevano, emettendo sentenze inappellabili. Una volta ricostituito il mito, avrebbe parlato di tradimenti e di sovversioni, indicando nei suoi avversari i colpevoli. Poi, deluso e amareggiato, avrebbe annunciato le sue irrevocabili dimissioni, ma non prima di aver concertato la sua Presidenza alla Banca “Emilia Ovest”, lasciando così il potere ai rivali, ben contenti di metterlo ai margini della politica.
Non era proprio un gran bel periodo. Il caldo era opprimente e i condizionatori del palazzo tutti guasti –maledetti Komunisti!– pensò, devo sempre rimediare ai loro danni!
Il fronte intanto era sempre più vicino e stava per arrivare al cuore del sistema. I colpi di cannone erano sempre più nitidi e frequenti – Che ci faccio qui con tutti questi rinnegati? Quel giornalista “diabolico” mi sta facendo il culo, e loro non sanno difendermi! – Cercò di scacciare quei terribili pensieri e uscì cercando un po’ di refrigerio.
Non poteva usare la sua auto, ormai ridotta un colabrodo dagli attacchi del terribile giornalista “maledetto”. Cercò un po’ di frescura sotto a un albero. Casualmente vide un vecchio manifesto del “Rio Piccolo” e i ricordi iniziarono a riaffiorare. Fu lì, che in modo del tutto inconsapevole, iniziò la sua carriera facendo il presentatore e scoprendosi poi uno strabiliante imbonitore. Già, ma in quel momento non aveva idea di come sfruttare questa sua dote. Al tempo, tra Valzer, Samba e Cha cha cha, non aveva grandi aspirazioni. Da DJ in una radio era diventato presentatore – un piccolo passo per un uomo ma grande per l’umanità -. Poi, casualmente, l’incontro con quello che diventerà il suo mentore: un locandiere che per hobby gestiva scassatissime squadre di calcio. Egli lo introdusse nel jet set del paese: quello dei nobili locandieri. Dopo essersi sistemato con una ragazza corredata da una ottima dote, grazie alla sua guida spirituale, un prete con aspirazioni Papali, fu introdotto nel mondo della finanza.
Pensò che in fondo, pur con i suoi studi limitati e provenendo da sperdute colline, di strada ne aveva fatta parecchia. La sua dote migliore era quella di saper convincere le persone parlando per ore senza dire praticamente nulla di concreto. Lo aiutava in questo la sua voce, dalla cadenza sommessa e dal tono suadente, appresa dai preti di campagna.
La sua ambizione aumentò a dismisura. Per anni lavorò al corpo locandieri e banchieri, riuscì, ancora non è chiaro come, a convincere un Sindaco di essere talmente meritevole e preparato, al punto tale da essere nominato Presidente di una importante fondazione. Il gioco era fatto, si preparava per lui una fulgida carriera. Era un predestinato! Come Presidente e locandiere si fece una discreta reputazione, cosicché un giorno arrivo la convocazione nel gotha del potere finanziario….
In pubblicazione dopo l’estate nelle peggiori librerie della città. Forse…
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