“Era un tempo evoluto quello a cui attingevo. Non è per questo che m’è sfuggito, ma è il nome di quel suono che rimbomba in me, oltre i confini dell’universo.” (ranofornace)
Pierdomenico “ranofornace” Scardovi – Read on (continuare a leggere) 1974 (file originale)
Viene ormai da pensare che il corso della nostra vita sia semplicemente il movimento di una forma stabilita, a noi attribuita, e assume sempre nuovi volti, pur tentando di tornare ogni volta alla sua originaria posizione. Questa forma è il plasma stampato di uno stato mentale, la corteccia corrugata di un vuoto d’aria che risucchia il sentire, sottraendolo dalla discarica del vivere. La sua radice non ha destino perché non la riguarda, se non nei solchi sfigurati dei suoi segni pratici; è la ripetizione differente dell’immutabile moto dell’essere a cui nulla accade. E’ tutto “un tornare” al punto determinato di un elastico e persistente sentire. l’inizio di una traversata dello spirito che trafigge il mare delle forme, plasmandole senza contrapporle, ma per operare una costante distinzione. Non si dà mai abbastanza importanza alle culture, intese come l’essenza di un fondo di forme estetiche, in grado purtroppo, di provocare insanabili incomprensioni.
La voce artistica non è chiara e contiene segni interpretabili, impensabili conducimenti della mente che portano a vagliare nuovi orizzonti, smentendo le aspettative degli intendimenti sociali. L’arte istiga alla insubordinazione spirituale, anzi la invoca. Nel cercare il recupero della dimensione totalizzante dello spirito a diffondersi senza specifiche riduzioni filosofiche, moralismi, idolatrie religiose o appartenenze politiche, nel segno dell’equilibrio instabile del divenire. E’ il destino dell’arte e dell’artista, quello della loro più totale solitudine, resta un monito al giudizio estetico-morale come metro di analisi in mano alle società, quando questo viene usato come modo di divisione, recriminazione e coercizione intellettuale.
“Parchment” (Unzione VI) (di Pierdomenico Scardovi – 2015) (link)
Il tetragramma (YHWH) ha attraversato i secoli, e i quattro idiomi preistorici, nella loro evoluzione grafica, hanno conservato il mistero della loro pronuncia e cioè quella “differenza” e “distanza” fra la fonesi e la forma grafica, dato che non si conosce con certezza la loro relazione, e cioè la corrispondenza del grafema (composto di quattro lettere) con i suoni linguistici dell’apparato vocalico primigenio, nonché la tipologia consonantica, semiconsonantica e anche il lato d’inizio della sua lettura, arrivando fino a noi con la trasformazione grafica e la fonazione in ebraico, iniziando da destra, la sequenza (HEI VAV HEI YOD). Tutte le trasformazioni pongono con grande fascino il quesito delle ragioni, della relazione fra segno scritto e pronuncia che, in questo caso, per tutte le implicazioni che comporta, riguarda l’entità referenziale più “causativa” con cui la cultura occidentale si sia mai confrontata.
La poesia “Tetragramma” scritta nel 1983, è un viaggio intellettuale, emozionale e sentimentale, che parte dalla sospensione di ogni giudizio sulla forma, sull’immagine e sull’esistenza divina, ma dalla domanda di come “pronunciare” il nome di Dio come se fosse un dilemma. Un segnico/linguistico, proto-culturale e sovrastorico, la cui radice si fondasse nella naturalità percettiva e imissiva di una iniziale fonesi carnale. Un’espansione sensoriale nella quale il sottoscritto si sente sbalzato nella dimensione in cui il pensiero viene distratto dalla ragione e dalla logica esaustiva riferita al “trascend–ente”, per estendersi fino al punto limite in cui non trova un senso. Quel punto segna l’inizio di un nulla come “punto” fondamentale e teorico di tutte le speculazioni filosofiche. E’ l’arte, un atto culturale in grado di trattare la materia astratta e totalizzante dell’idealismo filosofico, di creare, al di là di tutto, le cose che non esistono, non solo, ma anche frammenti di pensiero, particelle combinatorie atte ai processi il-logici. Di superare i confini della realtà tangibile e contribuire all’evoluzione dei processi cognitivi per andare incontro alla verità, che si rapporta costantemente al di là di tutto, a lei, lungo il cammino di conoscenza.
Tetragramma
YHWH – Tu lo pensi?
Ciò che mi è stato chiesto è in quello che insegue
non può avanzare
dietro come una spinta
o stare conserto profuma d’incanto.
Dare un nome è la follia
misurata con la forza della ragione
il fuori è intravedibile
senza prima né dopo
il dentro trova spiegazione.
E non è che la ricerca sia l’aspirato
fonetico intreccio di un carnale risveglio
o l’annullo totale in cui risiedi.
Non ho più parole per te
quelle che ho rubato sono nella poesia.
YHWH – Tu lo pensi?
Che ad esserci svanisce sul dire
scivolo a tavola tra le posate ammantate
ad irrompere il criterio mio e tuo
sulle trafile delle stoviglie porcellanate.
Ci sedemmo a sbatacchiare le forchette
erano bottiglie a festa
cinguettii di piatti e bicchieri.
Il gorgheggiare un concerto d’incanti
dentellare le parole più eloquenti
più della Sagra più della Primavera
fa la differenza e due livelli di tempo
volutamente in sé deiscenti.
Non ho più parole per te
quelle che ho donato sono nella poesia.
E non resta nulla di quel sogno.
Le cose effimere vanificale!
Sono unghie di dee setacciate dai cercatori di spine
a trasudare sul piano d’alabastro
sono imbuti d’acqua sui castelli di sabbia
ad affossare l’antico sole dell’estate.
Intervenne senso e concretezza a interrogarci
se tra i fossili rintocchi
il boato di una piuma elettrostatica
potesse attirare i nostri sensi
nello sconfinato terzo tempo.
O se fosse stato giusto lasciarci guidare
dallo sguardo avverso della porta
ancor prima di ascoltarne la voce
e il limite di poterla comprendere.
Non ho più parole per te
dunque le strapperò alla poesia.
Iniziai lentamente a scendere sul mantile
nell’ombra scorsi i miei teneri giocattoli
annegati nell’ipogeo degli arcani
inginocchiarsi a Cristo sceso dalla croce
salire a turno e udire il colpo allo sgabello
per far entrare la notte tra i raggi del sole.
Erano bambole erano bambini
erano biondi coi loro vestitini
miseri trastulli penduti dai mestoli
a singhiozzare nell’Agape di Varmo.
Erano d’olio i loro occhi spenti
stendevano le braccia coi riccioli tra i palmi
ad invocare l’acqua in un torbido amplesso.
Non ho più parole per te
e non ve ne saranno altre nella poesia.
Solchi delle schegge in processione
frantumeranno la volta celeste.
Vedrò intagliata sulla mia retina la nera ala di Satana
gli artigli uncinare le secche lacrime
imbeccate dai demoni con la costola spezzata della luna.
E la morte fare tre passi sul il mio ventre
premere il calcagno di pietra sul cuore
per stillare fra le grinfie il soffio del vento.
Sbava il miele dell’ape sul fiore d’acacia
scuote il ramo al battito della pioggia
fende l’utile operosità della terra.
Il verso rotacizzato respira itifallico
la nuda profondità della materia.
YHWH – Tu lo pensi?
Dall’embolica risalita
sbava sul cuore il gelido presagio.
Vedermi uscire dal corpo in un volo astrale
ad annaspare tra il magma e il sangue
con la forza issare la sdrucita randa
sul refolo effuso del sacro Sperma.
All’improvviso nell’incavo del muro
appare un’urna reliquiaria
con esposto un bianco coniglio
accanto ad un cumulo di candide larve.
Avvolgimi nel paradiso della bellezza o madre
in questo azzurro meriggio dalla tua terra
che a guardare muore
sui verdi prati l’infinito!
Pierdomenico “ranofornace” Scardovi 1983
L’artista si inoltra audacemente nei territori soliti del filosofo, dell’antropologo, dello psicanalista e del mistico, nonché dei suoi predecessori, ricavando dalle proprie conquiste le spore di una “verità generatrice” sovrastorica. Queste spore non appartengono a nulla di specifico, e non prendono il nome e la tinta di una disciplina e neppure servono all’esigenza conoscitiva comunemente intesa, ma contribuiscono a creare la condizione della verità dello spirito che è un fenomeno di per sé, inconcepibile e inammissibile se non nella captazione segnica degli enunciati artistici. Praticamente, è l’artista, nella sua apparente e completa impotenza, ad essere padre e madre di una differente sapienza del mondo, la sapienza costitutiva e misteriosa “del giusto che sia” o l’essenza della verità dell’arte. Quando l’asse della corposità artistica, dall’oggetto, è ormai spostato sempre più vicino alla sua lettura segnica, come atto “strutturale” (filosofico, antropologico, psicoanalitico, estetico).
Premonizione, intuizione, ripulitura dei fatti avvenuti, come la traccia di un passaggio obbligato, dalla quale è possibile pervenire a conclusioni su cosa pretende, quella che è la fantasmatica ameba incorporea che guida il sentiero invisibile del sentire. Se non bastasse, è la capacità di percepire l’esistere come l’andamento dei propri pensieri e delle proprie azioni, nei quali lo spirito lascia le impronte del suo scorrere sulla coscienza. Di cercare, sviluppare e sostenere i pensieri per indurli al “giusto che sia“, un sotto-sentiero dell’essere e, riprendendo Benedetto Croce, attraverso l’azione dello spirito teoretico, ovvero l’intuizione estetica, come forma di conoscenza individuale; o senza esitazione secondo Martin Heidegger, con l’opera d’arte (portata alla sua utile sintesi), in grado di rinvenire uno “squarcio” sulla verità dell’essere.
“Read on” (continua a leggere) 1974 e “Way of Saying” (modi di dire) 1974 – fanno parte dei grammelot anglofoni come ricerca espressiva volta a “non” significare ad eccezione di alcune parole esortative. Sono preghiere, invocazioni, canti, del sottoscritto appena ventenne, prodotti da un spontaneo e libero modo di usare l’apparato vocale, di fonizzare il proprio sentire tramite la parola “chiave” (il titolo), che nell’immediato “apre” alla melodia. Pierdomenico “ranofornace” Scardovi (voce, chitarra acustica).
Pierdomenico “ranofornace” Scardovi – “Way of Saying” (modi di dire) 1974
“HEI VAV HEI YOD“ (YHVH) (di ranofornace) 1994
“… Sono unghie di dee setacciate dai cercatori di spine
a trasudare sul piano d’alabastro…” (da “Tetragramma”)
“Se camminando in un luogo, dovessimo imbatterci in un qualsiasi supporto con inciso un graffito incomprensibile, potremmo presumere che si tratti di un segno, ma di fatto non lo sappiamo fino a quando non troveremo il modo per decifrarlo, appurando così l’esistenza di un codice in grado di interpretarlo. E’ la sua provenienza e la sua finalità, però, a porre innumerevoli interrogativi. La mente è un forziere senza serratura, le cui domande sono chiavi che urtano i contorni. E’ l’arte richiamata dal rumore, ad aprire la porta per far uscire un qualcosa che nulla ha delle risposte, se non il senso pervenuto da un piano sconosciuto. Ecco allora assistere, nel confondimento dell’intuizione, alla verità generatrice del segno estetico.” (ranofornace)
Buon Natale e un migliore anno nuovo a tutti!
Pierdomenico Scardovi
foto in evidenza “Tempio” (di Federica Scardovi)
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