– Il Burj Khalifa domina su Dubai con i giochi di luce che si inseguono sulle sue pareti lunghe quasi un chilometro. Ai piedi del grattacielo più alto al mondo, niente sembra cambiato.
La realtà dice un’altra cosa, da quando il prezzo del petrolio è crollato da 114 dollari al barile a metà del 2014, a sessanta a metà del 2015, fino ai meno di trenta oggi, stessa prosperità, stessa fiducia incrollabile nel futuro, che spinge i monarchi della regione verso investimenti sempre più audaci.
Dubai con quasi un milione e mezzo di stranieri da ogni parte del mondo — professionisti del commercio, della finanza o delle tecnologie — il cuore di Dubai non aveva mai pulsato così in fretta.
Solo pochi dettagli emergono alla superficie, da questi si capiscono gli effetti delle forze globali che stanno scuotendo i paesi del golfo e da qui propagano le loro scosse in tutto il mondo occidentale attraverso i mercati finanziari.
I grandi alberghi di Dubai sono sempre sfarzosi, ma ora da loro si riscuote una tassa di soggiorno. Solo a Bellaria Igea Marina, per scelta dell’attuale Amministrazione, non si paga la tassa di soggiorno... e si regalano risorse finanziarie per una sottospecie di promozione turistica, a una fondazione dove non è possibile controllare come vengono spesi i soldi dei cittadini. Grazie Kaiser!
Ma torniamo ai paesi del golfo, Dubai e Abu Dhabi, come l’Arabia Saudita, l’Oman, il Kuwait, il Bahrein e il Qatar, stanno scoprendo qualcosa di nuovo per loro: le tasse. Il regime di Riad, in profondo deficit, ha già cancellato una lunga lista di sussidi alle imprese, e da qualche settimana, i Petro-Stati del Golfo, si sono messi d’accordo per introdurre, nel 2018, un’imposta sul valore aggiunto.
Queste Monarchie stanno scoprendo il significato della parola “difficoltà”. Le loro risorse non sono più destinate ad aumentare ogni anno. Al contrario sono venute meno all’improvviso con il crollo del greggio. I conti sono spietati: «La perdita di entrate da petrolio per i sei Paesi del Golfo, è di circa 260 miliardi di dollari l’anno. È uno tsunami!», dice uno dei più importanti consulenti finanziari di molti paesi del golfo.
Soprattutto, questo tsunami non è passeggero. Poco più di un anno fa l’Arabia Saudita stupì il mondo bloccando nell’Opec (il cartello del petrolio) qualunque idea di un taglio della produzione per sostenere i prezzi. Il disegno era chiaro: lasciare che le quotazioni cadessero per mettere fuori dal mercato i produttori ad alto costo: il Canada, il Brasile, soprattutto le aziende del petrolio di scisto (shale oil in inglese, è prodotto dai frammenti di rocce di scisto bituminoso, ma soprattutto ha un costo di produzione più alto) negli Stati Uniti. Solo nel Golfo due terzi delle riserve restano estraibili con profitto anche quando il barile è a venti dollari.
Adesso le Petro-Monarchie devono arrendersi alla nuova realtà: sul petrolio non comandano più loro. La domanda non è quanto possano resistere i Paesi del Golfo a queste quotazioni, ma cos’altro possano fare. La strategia messa in atto è ormai l’unica praticabile. Tagliare la produzione per far risalire i prezzi, significherebbe lasciare all’Iran la conquista di quote di mercato dell’Arabia Saudita e che lo shale oil riprenda a pompare negli Stati Uniti e, domani, anche di più in Argentina. L’Arabia Saudita non è più il produttore marginale, quello che determina il costo del greggio. Quel ruolo oggi spetta ai produttori di shale oil.
Nel frattempo però, i Petro-Stati devono cercare nuove fonti di reddito: resta l’urgenza di non far saltare i bilanci di questi Stati. Le entrate sono crollate del 10% del Pil e il Fondo Monetario Internazionale, prevede nel Golfo un buco da mille miliardi l’anno. Per questo le Monarchie scongelano le riserve per far fronte alle spese. Il solo valore del Fondo Sovrano dell’Arabia Saudita è crollato in un anno da 850 a 670 miliardi di dollari: tutte vendite di titoli che contribuiscono ad affossare i mercati finanziari globali in questi mesi. L’approdo a una nuova normalità, visto dalla cima del Burj Khalifa, sembra ancora distante.
Ci troviamo al cospetto di una vera e propria guerra commerciale, i cui effetti sono destinati a protrarsi a lungo e le cui conseguenze non potranno non portare a profondi cambiamenti.
Nulla è eterno… anche l’Impero Romano è caduto…
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