IL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE CONTRO LA GERMANIA

Un’altra bordata e, a Berlino, fischieranno nuovamente le orecchie. L’offensiva dell’ufficio studi del Fmi contro ideologia e strumenti dell’austerità europea, di cui riferiva l’Eurobarometro della scorsa settimana, si è subito arricchita di un altro significativo capitolo, sotto forma di un rapporto dal titolo “Riformare la gestione di bilancio nell’Unione europea”. Sotto attacco c’è, in sostanza, il cuore stesso della politica promossa da Berlino e Bruxelles: la stesura di regole comuni della politica fiscale e l’obbligo di rispettarle. E’ il motivo che torna continuamente nell’interminabile saga greca. Dal ministro delle Finanze tedesco, Schaeuble, in giù, tutti a ricordare a Tsipras e Varoufakis che esistono delle regole e che la credibilità di ognuno dipende dalla capacità di rispettarle.

Regole? Piuttosto un gran pasticcio, osservano gli economisti del Fondo monetario. Fra trattati, Patto di Crescita e Stabilità del 1997, le riforme del 2005, poi il Six Pack del 2011, il Fiscal Compact del 2012, il Two Pack del 2013 si è creato un groviglio quasi impossibile da navigare, un sovrapporsi di obblighi, impegni, competenze, parametri in cui è difficile raccapezzarsi. E che, comunque, viene sistematicamente disatteso un po’ da tutti. Il famoso limite del 3 per cento del Pil al disavanzo pubblico

è stato raramente fatto rispettare. Quanto all’altrettanto famoso tetto al 60 per cento del Pil al debito pubblico, la media Ue è di 30 punti superiore e, dal 1999, metà dei membri di Eurolandia l’hanno bucata un anno su due.
E con ragione, fa capire lo studio del Fmi.

Il tetto del 3 per cento al deficit nominale, collegato al limite del 60 per cento del debito è agibile solo se si pensa che la crescita nominale (cioè quella reale più l’inflazione) sia del 5 per cento: un 2 per cento di inflazione più un 3 per cento di crescita. “Comunque – affermano gli autori del rapporto – la crescita potenziale è stata rivista verso il basso, dopo la crisi, e oggi si pensa che la crescita nominale a medio termine sia circa del 3 per cento in molte economie europee”. Ovvero, riassume in modo più elegante lo studio, “mutamenti nei fondamentali dell’economia hanno portato a incoerenze nell’attuale configurazione degli obiettivi numerici”.

Il rapporto non si sofferma su quella sorta di bomba ad orologeria creata dalla norma del Fiscal Compact del 2012 che prescrive, per i paesi con un debito pubblico superiore al 60 per cento del Pil, come l’Italia, una riduzione del deficit strutturale (ovvero il disavanzo depurato dagli effetti di una recessione) allo 0,5 per cento del Pil, che porterebbe ad un’austerità crescente. Ma gli economisti del Fmi sottolineano che il calcolo del deficit strutturale e, dunque, del prodotto potenziale, in assenza di crisi, è assai volatile e discutibile. Mettendo a confronto le previsioni (dello stesso Fmi) e quanto poi è effettivamente avvenuto, lo studio riscontra errori di misurazione sistematici, che arrivano anche a 4-5 punti percentuali. Una simulazione mostra che, utilizzando il parametro del deficit strutturale, la differenza nell’entità del debito pubblico fra proiezioni e risultato reale può arrivare, nel caso italiano, anche al 16 per cento.

Lo studio propone un’architettura assai più semplice, limitata a due regole: il rapporto debito/Pil e un tasso predeterminato di crescita della spesa pubblica, abbastanza flessibile da poter essere usato anche per contrastare una recessione. Con queste due regole, la stessa simulazione mostra che la differenza nel debito fra proiezioni e dato reale sarebbe limitata, per l’Italia, al 4 per cento, per il semplice motivo che misurare le prospettive del Pil diventa molto più facile e meno soggetto ad errori. Cambia qualcosa tutto questo per la Grecia? Quasi certamente, no. La revisione concettuale operata in questi mesi dall’ufficio studi filtrerà nella gestione politica del Fmi solo più avanti, e lentamente, come è sempre avvenuto. Tuttavia, sarà difficile tornare indietro.LAGARDE


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Il Direttore Giuseppe Bartolucci

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