VANESSA, GRETA E IL BENE DEI SIRIANI

Il parere del Direttore di Amnesty International Italia Gianni Rufini

Si sta molto discutendo del caso di Vanessa e Greta, tra umanitari e affini. A partire da una sensazione di déjà vu. Inevitabilmente, la memoria torna a dieci anni fa, quando Simona Pari e Simona Torretta vennero rapite a Baghdad: due giovani donne nelle mani dei loro rapitori. Ma la somiglianza finisce qui. Le due Simone nel 2004 erano quasi trentenni, la Pari aveva un master in cooperazione e aveva lavorato in Afghanistan e nei Balcani, per delle ONG molto serie. La Torretta frequentava l’Iraq dal 1994 e ci lavorava da otto anni. Erano al servizio di un’organizzazione solida, presente nel paese da dieci  anni e con una robusta rete di rapporti in Iraq e fuori. Entrambe continuano tuttora a lavorare nella cooperazione internazionale come professioniste di grande qualità ed eccellente reputazione. Il caso di Vanessa e Greta è molto diverso.

Nelle discussioni che ho seguito sui vari networks, si sostanziano due scuole di pensiero: la prima sostiene che la presenza di due giovanissime e inesperte donne in una zona di guerra civile feroce come quella siriana sia una follia, l’altra riconosce in questo gesto un’espressione d’impegno e di solidarietà individuale di grande valore. Cerchiamo di chiarire alcuni elementi della situazione.

Vanessa e Greta sono due studentesse impegnate da tempo nell’assistenza ai rifugiati siriani in Italia. In questo loro dignitosissimo percorso di volontariato e solidarietà, decidono di spostare la loro attività direttamente alla radice del problema, in quella terra martoriata da cui i rifugiati arrivano. Dalla Lombardia alla Siria. Il loro desiderio è comprensibile, ma se l’oggetto della loro attenzione è lo stesso, i siriani, il contesto e l’azione sono completamente diversi. Un conto è assistere un malato convalescente in corsia, un altro è fare un intervento chirurgico in sala operatoria. Probabilmente ne sono consapevoli ma il desiderio è troppo forte e magari hanno trovato qualcuno che le ha incoraggiate ad andare avanti.

Operare in una zona di guerra, come espatriati, è un’attività pericolosa ed estremamente complessa, che richiede non solo competenza ed esperienza ma anche un continuo lavoro di negoziazione con le parti in conflitto e un rigoroso sistema di procedure di sicurezza. Nonostante questo, ogni anno, circa 300 cooperanti muoiono in seguito ad attacchi ostili, e molti altri sono tenuti in ostaggio. Certo, in casi eccezionali anche operatori esperti possono trovarsi a compiere delle azioni avventate, magari per salvare delle vite in imminente pericolo. Ma lo fanno solo perché la posta in gioco è altissima, dopo un’attenta valutazione del rischio, e sulla base della loro competenza ed esperienza. Ma non troviamo niente di questo nel caso di cui stiamo discutendo.

Alcuni sostengono che le due ragazze non siano delle operatrici umanitarie ma delle militanti della solidarietà internazionale, che hanno deciso di rischiare la vita per portare la loro testimonianza alle vittime. Due persone che hanno deciso di mettersi in gioco, costi quel che costi. C’è generosità ed entusiasmo, esuberanza e impegno, voglia di fare. Non è necessario seguire le regole di chi dell’aiuto umanitario ha fatto un mestiere. Anzi, quando il gioco si fa veramente duro gli umanitari si ritirano mentre gli attivisti restano, magari come scudi umani, a costo della vita. In questo loro coraggio, nella loro grande generosità si deve leggere il valore delle loro azioni.

E i siriani? A cosa gli serve tutto questo? Il rapimento delle ragazze, paradossalmente dà una visibilità alla loro azione che altrimenti sarebbe stata a conoscenza solamente di pochi intimi. Dunque, non è un atto politico di pubblica testimonianza, quello che si è cercato. E’ un’azione di aiuto umanitario, per quanto modesta? Una piccola distribuzione di farmaci a malati cronici, senza uno straccio di analisi epidemiologica e destinata a non ripetersi regolarmente nel tempo, al massimo può alleviare il problema per qualche giorno per qualche decina di persone. E poi? E un corso di primo soccorso, tenuto da una studentessa al secondo anno di scienze infermieristiche, non ha molto senso in un paese dotato del miglior sistema sanitario del Medio Oriente e ricco di ottime università. Non c’è bisogno di Greta e Vanessa per organizzarlo. E allora cos’è quello che hanno fatto? A cosa serve?

E quali possono essere le conseguenze del loro rapimento? Per loro, due persone così giovani e inesperte, probabilmente sarà una sindrome da stress post-traumatico che potrebbe segnarle per molti anni. Per le organizzazioni umanitarie, oltre alla campagna di fango mediatico che è già montata contro tutte le ONG e le associazioni di volontariato, anche il rischio di una stretta alle operazioni, a danno della popolazione assistita, per il pericolo che si moltiplichino le azioni di sequestro. Non parliamo poi di una nuova campagna di accuse su “chi ha pagato il riscatto” o sui “servitori dello Stato la cui vita è stata messa in pericolo”, quando questa storia si concluderà.

Il mondo umanitario è pieno di volontari che si mettono a disposizione, e giustamente scelgono di lavorare nel quadro di progetti organizzati professionalmente. Sono persone qualificate, formate, guidate e sostenute nel loro lavoro. E ci sono tante eccellenti organizzazioni che sono capaci di metterne a frutto le qualità e la generosità. Se quello che si vuole è aiutare un popolo colpito dalla guerra, questo è il modo di esprimere il proprio attivismo e la propria solidarietà. Questo serve il bene delle vittime.  L’azione individuale ha un fascino straordinario, capisco bene quello che hanno provato Vanessa e Greta e ammiro il loro coraggio. Ma facendo così lo hanno messo solo al servizio di se stesse.

Questo affermava cinque mesi in occasione del rapimento, e come è facile capire è stato profetico.

Questo parere ci è molto Gradito, per l’autorevolezza e perchè cugino del nostro redattore Giorgio Mosconi.


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Il Direttore Giuseppe Bartolucci

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